La comunità ribelle su via Tuscolana
Aprile 1944, lunedì di Pasqua. C’è aria di festa all’osteria di Giggetto a Cecafumo, dopo quella del Piccione su via Tuscolana[1]. Anche se da mesi l’aria a Roma è diventata pesante e ormai irrespirabile, a seguito delle numerose rappresaglie che i nazifascisti commettono contro la popolazione cittadina, i romani riescono ugualmente a mantenere viva la tradizione popolare della consueta gita fuori porta. Una delle mete della pasquetta romana è l’osteria campestre, cioè un’osteria in campagna, spesso a conduzione familiare e dove si serve principalmente vino. La campagna romana che si estende a cominciare dalla periferia cittadina verso i Castelli romani è invasa da decine di fagottari, i quali si portano il cibo da casa trasportandoli con grandi coperte.
Da Giggetto di fagottari il 10 di aprile 1944 è pieno, sono arrivati tutti per godersi un po’ di sole e di tranquillità, di quella ormai rara quasi quanto la farina per il pane alla borsa nera.
Anche se molti fra loro non si conoscono, quel lunedì di Pasqua del 1944 ci sono tutti: belli e brutti, commercianti e contadini, impiegati e disoccupati, famiglie numerose e piccoli gruppi di amici, soldati tedeschi dei comandi militari vicini e partigiani delle borgate. Erano tutti lì con la sola idea di trovare, ognuno a suo modo una parentesi di normalità durante i lunghi mesi di guerra. Anche Peppino Albano, detto il Gobbo del Quarticciolo, è lì sulla Tuscolana con due suoi amici del Quadraro, tutti di età compresa tra i 17 e i 20 anni. Per quanto la vita della clandestinità avesse determinate regole, i giovani partigiani socialisti non volendo rinunciare alla voglia di godersi un po’ di tradizione romana fuori porta, si trovano anche loro da Giggetto, ma probabilmente con un po’ di paranoia in più rispetto a tutti gli altri avventori. Stando alle ricostruzioni storiche della giornata i tre ragazzi rimangono in una sala molto frequentata in cui ci sono anche tre soldati tedeschi, presumibilmente di stanza a Cinecittà, seduti a un tavolino di fronte al bancone dell’osteria. Essendo Roma occupata militarmente dai tedeschi fin dall’8 settembre 1943, è estremamente probabile che la presenza dei militi in libera uscita, non abbia destato troppe preoccupazioni nei gestori e tra gli avventori, tant’è che i tre ragazzi ordinano tre pagnottelle al bancone. Franco, Giovanni e Giuseppe sono ragazzi tipicamente romani per formazione e atteggiamento, conoscitori di quel codice di vita che si apprende solo sulla strada. Girandosi filano i tre nazisti al tavolino e le loro pistole nelle fodere dei cinturoni appoggiati agli schienali delle loro sedie. È una giornata di festa e a nessuno va di creare problemi, sebbene il vino dei Castelli faccia il suo effetto sui militari, i quali cominciano a schernire il Gobbo per la sua deformità fisica. Tali ammiccamenti vengono interpretati dai Franco e Giovanni, i quali li hanno di fronte a differenza di Giuseppe Albano che è di spalle, come un pericoloso segnale. Infatti, molte fonti orali sostengono che il Gobbo fosse stato da subito riconosciuto come il pericoloso nemico del Reich. A questo punto le percezioni dei ragazzi e dei soldati sembrerebbero prendere la medesima direzione della sfida, un duello visivo tipicamente western che li porta ad irrigidirsi e aspettare la reazione del reciproco sfidante. Chiaro è che i tedeschi vedono i romani come traditori e questi i tedeschi come assassini soprattutto dopo il terribile eccidio delle Fosse Ardeatine. In molti spariscono e vengono torturati nelle prigioni militari o delle SS di Herbert Kappler in Via Tasso.
Nonostante la memorialistica ufficiale su questo evento, è lecito pensare che tale incontro non sia frutto di un’azione premeditata ma di una semplice casualità. Questi elementi, sicuramente assieme ad altri, potrebbero aver creato le condizioni che determinano la scelta di difendersi dai tre soldati, i quali avendo probabilmente scorto e compreso solo dopo le occhiatacce chi hanno di fronte, cercano di prendere le armi. Viene sparato un colpo, poi un altro e tutti scappano, lasciando i propri fagotti sui tavoli. Scappano belli e brutti, commercianti e contadini, impiegati e disoccupati, famiglie numerose e piccoli gruppi di amici.
Il bilancio della giornata è di tre tedeschi morti del vicino Comando militare di Cinecittà. Parte delle indagini vengono affidate al Corpo della Polizia Africa Italiana della caserma Quadraro, che sostituì in borgata le funzioni di polizia e controllo territoriale una volta espletato dai carabinieri Reali, i quali a loro volta, sono deportati in Germania dopo il 7 ottobre 1943 per essere ritenuti fedeli solo al Re.
Dopo una settimana dall’uccisione dei tre militari tedeschi ed esattamente il 17 aprile, il Feldmaresciallo responsabile, Kesselring dà disposizioni precise per far eseguire l’operazione Balena, volta ad arrestare tutti i responsabili dell’azione all’osteria e reprimere chi presta loro aiuto. L’operazione militare “Walfisch” viene effettuata in stretta collaborazione della Polizia di Sicurezza a Roma, il cui comandante è il tenente colonnello SS Herbert Kappler.
La durata della manovra equivale a circa mezza giornata e l’intera comunità maschile viene prelevata con la forza da casa, portata nei locali del Cinema Quadraro per essere schedata e avviata agli stabilimenti di Cinecittà che, già dal 1943, erano stati trasformati in campo di concentramento per i prigionieri alleati.
Con l’aiuto delle SS italiane e spioni del luogo, i nazisti arrestano tutti: belli e brutti, commercianti e contadini, impiegati e disoccupati, fascisti e antifascisti, Carabinieri reali e militari che non hanno aderito alla Repubblica Sociale Italiana, nipoti, figli e nonni, comunisti, anarchici e cattolici. Vengono trattenuti solo gli uomini validi al lavoro di età compresa tra i 16 e 60 anni. Ancora oggi non è chiaro il numero esatto dei rastrellati, sappiamo solo che confrontando i documenti tedeschi con quelli della parrocchia di S. Maria del Buon Consiglio, apprendiamo che il numero arriva a circa 700 individui.
Il colpo di frusta per la comunità locale sulla via Tuscolana non è solamente quello legato alla privazione dei propri cari, ma anche e soprattutto quello pertinente alle economie familiari messe a dura a prova dalla guerra e dalla borsa nera. La deportazione dei soli uomini determina forti aggravamenti per la sopravvivenza fisica dei nuclei familiari, rimasti senza principale fonte di reddito.
Causa ed effetto
Di pancia a chi non verrebbe di puntare il dito sulla colpevolezza dei partigiani, principali responsabili della rappresaglia nazista? Probabilmente e in modo logico a molti. Se invece, ci si ferma a pensare e a considerare che Roma è occupata militarmente già da otto mesi e che per questo è già vittima e complice della deportazione dal ghetto di molti ebrei romani, di arresti indiscriminati e fucilazioni sommarie a Forte Bravetta, il rastrellamento del 17 aprile e le sue cause potrebbero essere anche altre. In tal caso perché non porsi altri quesiti? Perché Berlino ha paura del Quadraro? Perché i comandi tedeschi non puniscono i romani con un’altra operazione simile alle Fosse Ardeatine? Perché preferiscono deportare in massa un’intera comunità maschile composta da operai, sfollati e migranti interni senza fare distinzioni sul rapporto che hanno o meno con la Repubblica di Salò?
Come nel caso precedente, un osservatore contemporaneo valuterebbe senza ombra di dubbio il fatto storico, partendo dalla percezione che ha della vita oggi ed esprimendo quindi un giudizio di certo influenzato dalla società in cui vive e avulsa dalla quotidianità della guerra. Tale osservatore mancherebbe, infatti, del giusto coinvolgimento emotivo del periodo in cui si sviluppano quegli eventi, facendo emergere per questo una percezione da civile e contemporanea ma di circa settanta anni in ritardo da quegli episodi.
Civile è giustamente il punto di vista di un cittadino qualunque, ma il termine militare esprime ben altro significante se collocato in un teatro bellico come la Roma occupata. Per i tedeschi la Capitale rappresenta un teatro delle proprie operazioni di guerra e la retrovia per i rifornimenti del fronte. Gli Alleati, sebbene la bombardino più volte, dal canto loro ci vedono un ricco bottino che viene infiltrato per questo da doppiogiochisti e spie. Roma è una vera propria polveriera, Strategicamente importante anche per la presenza di Papa Pio XII. Lo stesso Kappler deponendo al suo processo per le Ardeatine in merito alla presenza di minorenni uccisi nell’eccidio, sostiene che è impensabile impiccare il Gobbo arrestato qualche giorno dopo i fatti dell’osteria per evitare una possibile reazione spropositata della popolazione già duramente coinvolta.
«Pochi giorni dopo fu arrestato il Gobbo, il quale confessò di aver preso parte all’attentato, e di far parte di una banda. Poiché il Gobbo era minorenne, e dimostrava un’età anche inferiore a quella che aveva, ritenni inopportuno che fosse impiccato, e ne parlai con Alianello, la prima volta che ebbi occasione di vederlo, per conoscere il suo parere, non come funzionario, ma come italiano e conoscitore dell’impressione che una tale impiccagione avrebbe suscitato nella popolazione». [W. Settimelli, Processo Kappler, Vol. II, l’Unità, Roma 1994]
Il punto di vista degli ufficiali nazisti è diverso da quello di chi combatte al fronte? E allora che percezione poteva avere un soldato tedesco in ritirata e coinvolto non più nella grande storia del III Reich tedesco, ma partecipe della sua disfatta? Apparirà ora evidente che il numero elevato di quesiti, lascia lo spazio ad altrettante percezioni differenti sui fatti storici, luoghi di partenza dai quali partire per tentare di avere un quadro più completo e meglio analizzare, contestualizzando, il Rastrellamento del Quadraro.
A tal riguardo Moellhausen, Console tedesco a Roma durante il periodo dell’occupazione, così descrive nel suo memoriale la percezione che si aveva della borgata Quadraro:
Il rastrellamento […] non rientrò però nel quadro previsto dalle Forze Armate per procacciarsi mano d’opera. Fu un’operazione diretta dalla polizia responsabile della sicurezza di Roma, la quale vedeva nel Quadraro il rifugio di tutti gli elementi contrari, degli informatori, dei partigiani, dei comunisti, di tutti coloro che essa combatteva. Il comando della città era dell’opinione, più volte manifestata, che quando qualcuno non riusciva a trovare rifugio o accoglienza nei conventi o al Vaticano, si infilava al. Quadraro, dove spariva. Voleva farla finita con quel nido di Vespe. [E. F. Moellhausen, La carta perdente: memorie diplomatiche 25 luglio 1943 – 2 maggio 1945, Sestante, Roma 1948]
Il Nido di vespe, ovvero la rete clandestina della borgata, è la rappresentazione di come più realtà locali intrecciate fra loro nel tempo collaborino non solo per idee politiche o religiose, ma anche e soprattutto per i legami territoriali forti sedimentatisi dalla fondazione della borgata agli anni Quaranta, quei legami simili per natura a quelli di una piccola comunità paesana. Belli e brutti, commercianti e contadini, impiegati e disoccupati, famiglie numerose e piccoli gruppi di amici cospirarono insieme contro un comune nemico il nazifascimo, sebbene esistesse una presenza di fascisti fedelissimi al Duce e alla causa del Terzo Reich nei territori. Le figure chiave del quartiere: il parroco, il carabiniere e il poliziotto, il dottore, il commerciante e la massaia assumono un valore aggiunto contro l’oppressione.
Gioacchino Basilotta, imprenditore locale e comandante delle formazioni Matteotti dell’8^ zona del Partito Socialista; Luigi Forcella, falegname e comandante delle formazioni Garibaldi del Partito Comunista; la Polizia Africa Italiana della Stazione Quadraro, grazie al cui doppio gioco molte retate vengono sventate e molte denunce sporte a carico di ignoti dal gennaio 1944; i marescialli dei Carabinieri Floridia e Di Leo, delle ex-caserme del Quadraro e di Cinecittà, scampati alla deportazione in Germania e aderenti con i loro uomini al Fronte Clandestino dell’Arma dei Carabinieri Generale Filippo Caruso; Don Gioacchino Rey e Monsignor Desiderio Nobels, il primo parroco del Quadraro della parrocchia di S. Maria del Buon Consiglio e il secondo della parrocchia di S.Giuseppe all’Arco di Travertino, legati entrambi tanto all’associazionismo cattolico quanto al Fronte Militare Clandestino di Montezzemolo sono coloro che organizzano massicciamente i giovani e gli abitanti contro il nemico comune. Status e persone un tempo nemiche ed ora unite che si associano per motivi patriottici. La città clandestina, divisa dal Cln romano in otto zone d’intervento, vede nelle borgate popolari e popolose di Centocelle, Tor Pignattara, Pigneto, Certosa, Quarticciolo e Quadraro un importante tassello per la Liberazione di Roma, tanto da meritare nei successivi anni della guerra encomi e medaglie al merito civile dalla Repubblica Italiana.
Il Quadraro, quindi, logisticamente posto tra due comandi militari tedeschi importantissimi per il controllo del settore Sud-Est di Roma quali l’aeroporto di Centocelle e Cinecittà, è ritenuto un seria minaccia dai nazisti a partire dal 1943, tanto da essere inserito come punto di partenza per un presumibile progetto di evacuazione generale dei quartieri più pericolosi della città. Perché i nazifascisti avevano paura della borgata? Sicuramente non per tre militi uccisi in un’osteria campestre, ma più verosimilmente per una comunità intera che trasversalmente è coinvolta e protegge la Resistenza.
Quindi parlare oggi di Resistenza vuol dire non dimenticarsi del nostro passato, della nostra storia locale e nazionale, del diritto alla libertà di opinione che con un caro prezzo di sangue è stato pagato da tutti gli italiani. Parlare oggi di Resistenza vuol dire continuare a manifestare disappunto insieme, nei confronti di chi propone politicamente scelte sommarie senza interpellare le comunità territoriali. Parlare oggi di Resistenza vuol dire comprendere che la diversità di opinioni, di colore, di racconti, di status e di culture costituisce la ricchezza stessa del nostro costume e della nostra storia, che continua ad evolversi e a renderci ancora una volta un popolo di navigatori. Parlare oggi di Resistenza vuol dire ancora, come ieri, opporsi come italiani a chi ha la forza e non la ragione.
Bibliografia
F. Caruso, L’arma dei Carabinieri Reali in Roma durante l’occupazione tedesca (8 settembre 1943-4 giugno 1944), Istituto Poligrafico dello Stato, Roma 1946.
W. De Cesaris, La borgata ribelle – il rastrellamento del Quadraro e la resistenza popolare a Roma, Odradek, Roma 2004.
E. Dollmann, Roma Nazista, BUR, Milano 2002.
E. F. Moellhausen, La carta perdente: memorie diplomatiche 25 luglio 1943 – 2 maggio 1945, Sestante, Roma 1948.
C. De Simone, Roma città prigioniera – i 271 giorni dell’occupazione nazista (8 settembre ‘43 – 4 giugno ’44), Mursia, Milano 1994.
P. Monelli, Roma 1943, Einaudi, 1993.
E. Piscitelli, Storia della resistenza Romana, Laterza, Bari, 1965.
A.Portelli, L’ordine è già stato eseguito, Donzelli Editore, Roma 2001.
W. Settimelli, Processo Kappler, edizioni l’Unità, Roma 1994, Vol. II